Il fotografo della porta accanto

Sabato 7 dicembre 2019 | Andrea Sivilotti

Il 26 aprile del 2009 muore a Chicago Vivian Maier, un’amante della fotografia che si era dilettata fin dalla giovane età ad immortalare persone qualunque incontrate per strada.

Immagine tratta dal web

In vita nessuno sapeva delle sue abilità da fotografa, pochi avevano avuto l’occasione anche solo di vedere le sue fotografie, eppure oggi, a distanza di dieci anni è diventata un’icona della fotografe di strada.

Nel mondo dell’arte storie di questo genere se ne son viste molte, tuttavia ancora oggi la società non riesce a notare il vero talento, o meglio, non riesce ad individuarlo fra le persone comuni, fra i contemporanei.

Oggi i talenti non si cercano, si creano.
L’élite degli arrivati si sente sempre in dovere di creare dei cloni, già proprio così, dei cloni della loro essenza, che possano venerare il Maestro per l’insegnamento ricevuto, e quindi indirettamente alimentarne la sua popolarità.

Così dalle scuole di scrittura “creativa”, dai “workshop” di fotografia, dai “master” di pittura escono tanti soldatini co-ispirati, che altro non rappresentano che l’ombra lunga dei loro mentori.
A volte, anche solo osservando il prodotto creativo delle nuove leve, si può risalire per deduzione a chi sia stato il loro Maestro.
È vero che la storia ci racconta anche di un certo Giotto che superò in bravura il suo Maestro Cimabue, ma si sa che questa è tutta un’altra storia.

Caro lettore ti starai chiedendo per quale motivo affronto questo argomento, ebbene è la indigesta critica di alcuni saccenti che monopolizzano l’arte, e ne incanalano le risorse in uno o più pensieri comuni, che finiscono per condizionare l’opinione pubblica e quindi scoraggiare i talenti veri.

Amo inoltrami nelle letture di un “passato contemporaneo”, lo definisco io, leggo articoli di Pasolini scritti oltre quarant’anni fa’, poi mi guardo una performance di Marina Abramovic e Ulay, e mi rendo conto di quanto avanti fossero loro a quei tempi, e quale globale contrasto ricevettero per la loro arte.

Oggi l’opinione pubblica in genere e la critica d’arte nello specifico, di questi maestri, di queste figure del passato se ne fanno uno scopo di vita professionale, le rivalutano, le idolatrano, ci campano sopra.

Allora io mi chiedo, ma tu esperto d’arte, che hai dedicato i migliori anni della tua giovinezza allo studio dei Maestri del passato, delle tecniche e dell’evoluzione nel mondo dell’arte, perché non lo usi per individuare l’estro artistico innato nelle persone comuni?

Perché non lasci perdere le mode e le tendenze del momento, e ti dedichi alla caccia del nuovo Giotto, del nuovo Pasolini, della nuova Vivian Maier?

Perché dobbiamo lasciar che muoiano da soli in qualche ospizio, artisti talentuosi ma sconosciuti, e solo dopo la loro morte o a distanza di anni, possiamo finalmente incontrare la loro immensa arte?

Perché dobbiamo ricostruire a posteriori, con ipotesi al limite del surreale, quali fossero i motivi di ispirazione, la loro filosofia creativa o quant’altro ancora?

Perché dobbiamo sopportare l’innalzamento ai vertici del successo artistico e culturale, artisti mediocri e banali, solo perché “figliocci” di altri artisti mediocri e banali ma di tendenza?

Io a volte mi immagino una taciturna Vivian Maier ai suoi tempi, che si rivolge ad un’agenzia fotografica, o a una casa editrice, o ancora meglio ad una galleria d’arte, presentandosi con i suoi abiti fuori moda, il suo aspetto così comune, e sottobraccio un pacco delle sue migliori immagini.

Mi immagino pure la faccia snob e pressapochista dei suoi interlocutori, e mi immagino le risposte date in fretta e furia, dopo una vista veloce a quei capolavori di una quotidianità fastidiosa:
“Mi dispiace signora, ma queste sono immagini banali, chiunque potrebbe scattarle con la sua macchinetta nel fine settimana. Sono scene che non interessano la gente. Sono cosa giù viste e riviste.”

Che lungimiranza! Che occhio critico! Che senso analitico!
Gianni Berengo Gardin lo ripete spesso, la fotografia è documentazione, le fotografie devono essere prima di tutto un documento storico.

Le fotografie di Vivian Maier oggi ci raccontano uno spaccato storico della società americana, che nessun altro ha raccontato in quel modo.

Oggi in Italia molti giovani appassionati di fotografia, e altri che semplicemente si stanno avvicinando alla fotografia, erroneamente credono che per fare una buona fotografia si debba andare sulle Ande, ho nei villaggi sperduti dell’Himalaya.

Che per diventare un buon fotografo si debba iniziare con l’acquisto di decine di migliaia di euro di attrezzatura, o che sia fondamentale fotografare solo le ragazze più belle della piazza.
Nessuno si sognerebbe più di fotografare i propri vicini di casa, o i colleghi mentre si occupano delle quotidiane mansioni lavorative, o ancora il paesaggio urbano del paesino in cui vivono.

Nessuno si rende conto, e nessuno si è preso la briga di spiegarglielo, che il mondo e le persone che ci circondano cambiano a vista d’occhio, sia che io mi trovi a migliaia di chilometri da casa, sia che io mi trovi al bar all’angolo della mia via.

Una delle tante domeniche dedicate alle visite di mostre ed esposizioni, di alcuni anni fa’, andai a vedere una mostra fotografica in un paesino sul confine tra Veneto e Friuli dove abitava un amico, anche lui appassionato di fotografia.
Era una mostra a tema, sulla società rurale di quei posti, le immagini erano in bianco e nero, scattate poco dopo la seconda guerra mondiale.

Io rimasi impressionato dal racconto che trapelava nella sequenza di immagini esposte, foto semplici ma che raccontavano molto.
Al mio amico sembravano banali, immagini uguali a molte altre che lui aveva attaccate sui suoi album di famiglia.

Per me invece, che non ero di quel posto, la visione completa mi raccontò un pezzo di storia di quei posti, non solo, ma il mio amico guardandole, le commentò una ad una, aggiungendo dettagli o aneddoti che le stesse immagini facevano riaffiorare dalla sua memoria.

Una semplice immagine bidimensionale, monocromatica, appesa ad un muro, a distanza di decenni era riuscita a raccontare una porzione di storia, e allo stesso tempo era riuscita a stimolare il ricordo e la memoria.

Beh! se tutto questo non si può considerare un capolavoro, che cosa altro è?

E su questo ultimo quesito vi lascio riflettere…

Buone foto e alla prossima.

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