La vita che rivorrei

Sabato 19 ottobre 2019 | Andrea Sivilotti

Il sole quella mattina sembrava titubante, non voleva saperne di distribuire il suo tepore quotidiano, segno che oramai l’estate era andata.

Ma come ricordava sempre il vecchio zio:
“non v’è un male che non porti con sé un po’ di bene”,
almeno così, con l’umidità depositata durante la notte, non era necessario bagnare il campo di bocce.

Passò quindi alla fase successiva, prese il rullo artigianale fatto con un pezzo di grosso tubo metallico, nel quale aveva colato l’impasto di ghiaia e cemento, e comincio a farlo correre avanti e indietro sul lato lungo del campo.

Sembrava un campo da professionisti, livellato alla perfezione, bordato ai lati recuperando vecchie traverse di binari ferroviari e con le immancabili panchine laterali per gli spettatori.

Immagine tratta dal web

Le betulle piantate oramai da diversi anni avevano creato una bella e folta chioma, che nelle giornate più calde, portavano un benevolo refrigerio dato dalla loro fresca ombra e dal movimento dei sottili rami pendenti spinti dal vento.

Rimesso a posto il rullo Andrea diede una passata con lo straccio alle bocce e di seguito ai tavoli e alle panche.
Guardò l’orologio, le 7:45. Come ogni mattina s’era svegliato presto: la toletta, 15 minuti di esercizi, un’oretta di meditazione ed infine la colazione, poi avanti con i preparativi.

Tutto era a posto, da lì a qualche decina di minuti sarebbero arrivati i primi ospiti.
Entrò nella minuscola casettina di legno, dove aveva improvvisato un minibar, prese la moka da sei e inizio a preparare il caffè.

Apri il suo computer portatile e iniziò a leggere svogliatamente, come ogni mattina, le news e le mail di posta. Scorreva veloce tra le pagine del web conscio che v’era ben poco di interessante e degno di nota, solo un’infinita dose di odio, violenza, sofferenza e tanta tanta indifferenza, il tutto contornato da una gigantesca marea di superficialità.

Un passaggio mattutino triste ma doveroso, nella speranza di cogliere qualche spiraglio di controtendenza, che solitamente trovava scorrendo i post dei gruppi ai quali era iscritto sui Social.
Il caffè era pronto e come un orologio svizzero anche lo zio Rino, con sotto al braccio il Messaggero Veneto, scendeva i pochi gradini verso il campo.

Rino – Oh buongiorno Andrea.
Andrea – Buongiorno zio, il caffè, amaro con un po’ di latte come sempre?
Rino – Sicuro. Come va oggi? Hai riposato ‘sta notte?
Andrea – Benissimo come sempre.

Lo zio si piazzò su una delle due panchine e vi distese il giornale. Sfogliava lentamente le pagine sorseggiando il caffè fumante, Andrea il suo secondo caffè della giornata lo bevve in un fiato, ancora in piedi sul piccolo lavandino fuori la casetta.

La moka non fece in tempo a raffreddarsi che fu svuotata da gli altri ospiti arrivati uno alla volta, a distanza di pochi secondi. Dante arrivò attraversando un pertugio ricavato nella recinzione, mentre Piero, come soleva fare nelle giornate di bel tempo, arrivò percorrendo l’immenso prato che lo separava dalla sua casa.

Franca arrivò tenendo per mano Livia e facendola accomodare su una sedia in vimini denominata “il trono”, perché era stata di esclusivo utilizzo della mamma di Andrea, ai tempi quando era ancora tra loro.

Lo zoccolo duro del borgo era arrivato, mancavano pochi all’appello, ora rimaneva d’attendere gli ospiti di prestigio.
Piero – Chi ci viene a trovare oggi?
Andrea – Dovrebbe arrivare a metà mattinata Mauro, e credo si fermerà a pranzo, mentre nel pomeriggio di sicuro faranno un salto Luigina e Angelo.
Rino – Bene, bene, bene sta arrivando anche Ferruccio.
Ferruccio – Buon giorno a tutti, come va? Mi avete aspettato allora?

Il numero legale per iniziare la partita a bocce oramai c’era. Le squadre si formarono velocemente, dando spazio anche alla quota rosa, con la precisissima Franca.

Mentre il gruppo iniziava, Andrea sistemò la prolunga per attaccare il carica batteria del computer, accese una musica blues di sottofondo e si sedette su uno sdraio con un libro iniziato solo il giorno precedente.

Un ritrovo strano quello che li accumunava, era bastata la concessione di un pezzetto di terra di Piero, un campo di bocce auto costruito con l’aiuto di tutti, quattro tavoli con panchine, una decine di betulle e qualche ombrellone per aggregare persone che nella loro lunga esistenza, avevano disimparato a frequentarsi.
L’idea che da molti anni frullava nella mente di Andrea, era quella di staccare e tagliare quel deleterio cordone ombelicale che legava, anzi incollava, le persone allo schermo delle tv. Trasmissioni televisive demenziali e celebro lesive, che avevano distrutto a poco a poco tutti i legami interpersonali tra amici, parenti o semplicemente vicini di casa.

Voleva ripristinare l’usanza del ritrovo del vicinato sotto casa, non solo, ma voleva dare un tocco culturale all’evento. Non doveva diventare un trampolino per pettegolezzi e dicerie, bensì voleva reinventare la figura del “contastorie”.

Con molta dedizione, tenacia e pazienza, non solo era riuscito nel suo intento, ma era pure riuscito a creare quasi un “privée” letterario, un posto dove alcuni scrittori, poeti e artisti si ritrovavano anche solamente per raccontare qualche storia o leggere alcuni passi delle loro produzioni.

Tra una partita a bocce, una staffetta di briscola, scopa e tresette, e qualche pausa per un caffè o un bicchiere di vino, gli artisti affascinavano con i loro racconti i presenti.
Capitava a volte che gli stessi artisti rimanessero ad ascoltare le storie di vita vissuta degli autoctoni, magari trovando poi ispirazione per le proprie storie.

Aveva iniziato intrattenendo i presenti con dei racconti brevi, che parlavano proprio della loro via, delle persone che tutti loro avevano conosciuto e che non c’erano più.
Ricordi, aneddoti, spesso allegri altre volte tristi, che avevano conquistato l’attenzione dei presenti.

Andrea da qualche anno aveva cambiato lavoro, riuscendo così a concedersi più tempo libero ed a coltivare la sua grande passione, quella di scrivere.
Li in mezzo ai suoi amici e vicini trovava la serenità ideale per scrivere le sue migliori storie.

La mattinata stava oramai terminando, Franca e Livia s’erano avviate verso casa per preparare il pranzo, mentre al gruppo s’erano aggiunte altre figure del posto.
Che fosse presente o meno Andrea, quel ritrovo oramai viveva di una vita propria, dal mattino presto sino quasi alla sera, ondate di gente che andava e veniva ravvivava la compagnia.

Il frigorifero e la dispensa della casetta erano sempre ben riforniti, c’era sempre qualcuno che portava qualche cosa da casa. Chi portava un salame, chi un pezzo di formaggio stagionato, qualcuno preparava la torta, altri dei biscotti, e il vino poi non mancava mai.
Le partite erano state giocate, mancava un’oretta al pranzo, Mauro era arrivato e dopo un giro a tresette, aveva preso dalla giacca, un quaderno arrotolato, dalla copertina scura.

Mauro – Ora vorrei leggervi una storia che ho scritto in questi giorni.
Tutti si voltarono silenziosi verso l’oratore, Andrea posò il libro che stava leggendo e si mise all’ascolto.

Mauro si piazzò gli occhialini da lettura sul naso e iniziò il racconto.

– È una storia che ho solo abbozzato, dovrò svilupparla un po’ meglio, diciamo che questa è una prima traccia, per comodità narrativa l’ho ambientata in un posto in particolare, ma potrebbe tranquillamente essere ambientata ovunque.

È la storia di cinque cani che vivevano poco distanti gli uni dagli altri, quattro dei quali in quattro diverse case della stessa via, il quinto è un randagio che a volte scorrazzava da quelle parti.
Vivevano in uno dei borghi più elitari di una famosa città turistica, nel centro America.

Un posto fantastico in riva all’oceano, una meraviglia della natura che non era stata però sufficiente a distrarre gli animali, come d’altronde i loro padroni, dall’unico e solo desiderio che avevano maturato: manifestare l’odio reciproco.

Passavano le giornate a ringhiare e abbaiare, rincorrendosi lungo gli imponenti muri di cinta, quasi a voler dimostrare gli uni agli altri, che se non fosse stato per quel muro che impediva loro il balzo della supremazia, avrebbero già da tempo annientato il loro rivale.

Non ricordavano più nemmeno quando avevano iniziato ad odiarsi cosi tanto, quando avevano iniziato a sentire scorrere la bava lungo la barba, eppure c’era stato un tempo in cui avevano giocato assieme, rincorrendosi goffi come solo dei cuccioli sanno fare.
Ora c’era chi pensava a difendere il proprio territorio, chi invece difendeva il proprio proprietario, e chi infine desiderava solo dimostrare la propria superiorità sul suo simile.

L’anomalia di quel quadretto era data solo da un bastardino randagio, che una o due volte la settimana passava lungo la loro via, mettendo in subbuglio gli animi degli autoctoni.
Indifferente a tutto e a tutti si avvicinava ai cancelli delle loro case, quasi per cercare un cordiale incontro, ed immancabilmente finiva solo per scatenare una corale apoteosi di rivalità ed odio.

Solo per una o due volte la settimana il gruppo di solisti si trasformava in un vero e proprio coro a cappella, coalizzato contro il momentaneo comune nemico.
In fondo si sa che l’odio purtroppo, aggrega più di quanto non possa l’amore.

Eppure, nonostante la disperata solitudine in cui vivevano quei quattro cani, solo in quel determinato momento, erano capaci di trovare forze nascoste, tali da essere concentrare in un’unica forza cumulativa da scatenare contro l’estraneo, il diverso.
Solo le alte e forti recinzioni impedivano loro di mescolarsi, dimostrando così il proprio valore.

La cattiva sorte volle però, che quel luogo paradisiaco, fosse colpito da un terribile uragano, che per giorni mostrò la sua infinita potenza distruttiva.
Della magnifica spiaggia, dei parchi, dei verdi giardini fioriti e delle colorate case, in pochi giorni non rimase che qualche ricordo, tutto spazzato via.

Le persone erano scappate o si erano rifugiate negli unici edifici che avevano resistito all’urto. Molti animali vagavano disperati da giorni lungo le strade, alla ricerca di una passata tranquillità che faticavano a ritrovare.
I nostri quattro cani, abbandonati ed impauriti, s’erano nascosti dentro una rimessa d’auto, che per come era stata costruita, aveva retto abbastanza bene ai colpi infieriti dell’uragano.

Il terrore li accumunava, la mancanza di rigidi confini protettivi aveva cancellato le distanze che in origine li separavano, il freddo e la fame li aveva infine spinti ad aiutarsi. Accovacciati assieme in un unico batuffolo di peli e brividi, si davano coraggio scaldandosi a vicenda.

Da un pertugio da dove a malapena passava un filo di luce, videro spuntare il bastardino randagio, che con il suo solito sguardo sornione li guardava incuriosito.
Loro non mossero un orecchio, lo guardavano come un umano guarda un intermezzo pubblicitario a metà di un film ricco di suspense, aspettavano il dopo.

Il bastardino si voltò e sparì da dov’era arrivato, ma non passarono molti minuti che lo sentirono ritornare.
Si resero conto che faceva un po’ più fatica della volta precedente, stava trascinando qualcosa, un sacchetto di tessuto.
Lo avvicinò ai quattro e tirandolo di colpo dal basso, vuotò il contenuto davanti a loro, era pane.

Dopo aver in parte calmato la fame si riaccovacciarono vicini, mentre il randagio li vegliava da poco lontano.
La notte era nuovamente vicina e il freddo s’era fatto più pungente, uno dei quattro si alzò e andato vicino al randagio, gli si distese accanto.

Lo seguirono a ruota anche gli altri tre, andando a formare un nuovo batuffolo di peli più grande e più caldo, ma meno triste e meno disperato.

Mauro chiuse il suo quaderno, ripose gli occhialini da vista nel taschino della giacca e aggiunse:

– Morale della favola: la “sorte” non guarda mai da che parte stai del muro, per lei non ci sono muri, non ci sono piedistalli, non ci sono stati di diritto. Davanti alla “sorte” siamo tutti uguali.

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