Via Sottoriva – Quarta Parte

Lunedì 18 settembre 2017 | Andrea Sivilotti

Oggi, immaginando di essere seduto sulla panchina di legno fuori casa, guardo pensieroso il tratto di via che mi si apre davanti.

Ascolto la frenetica musica prodotta dagli uccelli nel bosco, canti che a differenza dei miei fratelli, non ho mai imparato a distinguere l’uno dagli altri, e osservo la strada, i suoi bordi avvinghiati dalle erbacce, i chiusini degli scarichi fognari ricoperti e tappati dalle foglie e dalla terra trasportata dalle forti e persistenti piogge, e ripenso a una persona del passato.

“Gigi Napoli”, così era soprannominato uno degli spazzini comunali, uno che aveva origini molto lontane, come tradiva il soprannome, ma che ricordo parlasse in perfetto friulano infarcito dai classici intercalari blasfemi come voleva la tradizione popolare.
Lo si vedeva all’opera nella nostra via non più di una volta all’anno, a inizio primavera di solito, arrivava con il suo vecchio motorino e lo parcheggiava nel cortile più vicino al tratto di strada che si sarebbe apprestato a pulire.

Gli strumenti di lavori, pochi: una carriola, una falce, una zappa, un piccone, una pala e la grande scopa di saggina; li spostava a mano a mano che avanzava e la sera, finito il turno, chiedeva a qualche famiglia di custodirli nel loro cortile sino al giorno successivo.

Ai tempi le amministrazioni comunali non appaltavano quasi nulla, i dipendenti si occupavano a seconda del periodo dell’anno di ogni necessità del paese.

C’era chi si occupava di potare in modo decorativo i cespugli del magnifico piazzale IV novembre, o del parco del castello, e c’era chi risistemava tratti di selciato o sistemava i cartelli stradali caduti o schiacciati dagli incidenti causati da qualche ubriaco, altri rifacevano le segnaletiche a terra, mentre in autunno quasi tutti erano indaffarati a spazzare le foglie nelle zone del centro e nelle vie principali.

Gli autisti degli scuolabus al di fuori delle necessità scolastiche o durante le vacanze, aiutavano gli altri dipendenti in lavori di ristrutturazione di opere pubbliche, come ad esempio gli ampliamenti nei cimiteri.

Erano dei veri tuttofare, non c’erano le rigide e ridicole specializzazioni di oggi, e non venivano assunti con un preciso incarico, la filosofia era ben più semplice ed umana:
“quello che serve va fatto, e tutti debbono contribuire”.

Questa era la vera filosofia di vita dei friulani, quelli che la casa se la costruivano da soli, dalle fondamenta sino al tetto, nei giorni di festa, nelle vacanze o nelle lunghe e calde serate estive.
Sapevano metter mano ovunque.

Questa di fatto era anche la dote che aveva reso quella dei friulani, la manodopera più richiesta al mondo.

Ma i sandanielesi sono sempre stati un popolo di lamentosi, e di “Gigi Napoli” fin che si occupava di pulire le strade, dicevano solo che lavorava troppo lentamente, e amava più che altro chiacchierare con gli abitanti delle vie di cui si occupava.

Ora a distanza di quarant’anni, e con una relativa esperienza in direzione lavori sui cantieri, continuo a pensare che quel signore, nonostante la sua lentezza, la sua socialità, avesse dei rendimenti qualitativi di gran lunga superiori a quelli delle costosissime ditte in sub-appalto odierne.

Oggi infatti sono in molti a rimpiangere i vecchi dipendenti comunali come il buon Gigi.
Lui passava ed estirpava, tra una chiacchiera e l’altra, ogni filo d’erbaccia dei canali; ripuliva sino in fondo ogni pozzetto, e se dopo un grosso acquazzone, dal bosco, scendevano fiumi di terra e foglie a ricoprire le strade, bastava una semplice telefonata ai vigili urbani e lui assieme ai suoi colleghi ripassavano a ripristinare la strada come da manuale.

Una volta l’anno pulivano le strade, ed era sufficiente perché quelle erbacce lui le aveva estirpate con tutte le radici.
Oggi con le modernissime tecnologie, ci avvelenano con i diserbanti, poi con i fastidiosissimi decespugliatori passano a polverizzare quanto rimane, senza curarsi delle radici che nel frattempo piano piano, si mangiano gli asfalti e cementi delle strade e delle canalette di scolo.

Passa solo qualche settimana e la situazione di degrado ritorna sempre la stessa, e se per caso un temporale scompiglia di nuovo la strada, passeranno mesi prima che un nuovo appalto venga affidato per ripulirla.

Il mio ricordo di “Gigi Napoli” è positivo in tutti i sensi, sia professionalmente che umanamente.
Io da bambino, gli stavo a fianco mentre lavorava, e lui mi raccontava le sue storie, o se le raccontavano con mia mamma o mio nonno.

Per quelli come lui, a casa mia, il caffè al mattino era sempre pronto e il bottiglione di vino era sempre sulla finestra, magari anche con un buon panino a mezza mattina.
Era forte Gigi, è vero ci impiegava più tempo a pulire i trecento metri del nostro tratto di strada, che non tutto il resto di via Sottoriva, dove di case ce n’era ben poche e per di più vissute da persone non molto socievoli e ospitali.

Era simpatico quell’uomo e lo era anche il suo collega, “il gimul”, uno dei due fratelli gemelli che abitavano in borgo sacco.
Tutti personaggi di un passato per il quale si riesce ad aver memoria proprio grazie all’umanità che c’era, grazie alla facilità e naturalità con cui le persone si relazionavano.

Me li vedo ancora “Gigi Napoli” chino sulle erbacce e mio nonno appoggiato al frangisole, con una mano sul bastone e l’altra a tenere il toscano oramai spento e pronto per la masticazione, mentre io e mia madre, vestiti a festa ci avviamo verso il mercato settimanale.

Io e mia madre diretti verso il mercato – Era il 1974

Anche il mercato del mercoledì in centro era una felice ricorrenza, era quasi come quando una volta l’anno mi portavano alla festa di Comerzo, a vedere le giostre, sulle quali per altro non amavo salirci ma solo guardarle.

Salivamo la “rote” per arrivare sul piazzale “IV novembre” dove si avvistavano le prime bancarelle con fiori e piante, poi all’imbocco di via “Umberto I” c’era lo sbarramento dei vigili e lì cominciava il percorso in ombra tra i tendoni e gli ombrelloni delle bancarelle.
Mia madre aveva i suoi rivenditori preferiti a cui si rivolgeva da anni e che conoscevano uno per uno i propri clienti.

C’era il furgoncino dei formaggi che arrivava dal Veneto, il venditore di scarpe che arrivava dal pordenonese, il camioncino con la rosticceria, l’uomo delle sementi e quello che vendeva le audiocassette, e poi c’era quello dei giocattoli.

I miei genitori, come molti altri in quel periodo, avrebbero potuto batter qualsiasi manager aziendale dei giorni nostri, con la loro grande capacità di gestire una famiglia così numerosa con un budget mensile così ridotto.

Eppure nonostante i grandi sacrifici e le enormi privazioni, non ricordo un solo mercoledì al mercato che mia madre non mi abbia acquistato un seppur piccolo regalo.

Le macchinine erano le mie preferite ed anche le più abbordabili.
Al mercato incontravamo sempre tanti amici e parenti, anche quelli arrivati dai paesi vicini con le corriere del mattino.
Mia madre così riusciva a mantenere pure i contatti con le persone del suo paese di origine S.Pietro di Ragogna, meglio conosciuto come “Borc”.

E così al suono terrificante della sirena sul campanile del Duomo, che avvisava la cittadinanza del sopraggiunto mezzogiorno, ci avviavamo verso casa con il nostro pollo fumante e tante altre borse con le spese della settimana.

Se il carico poi era troppo pesante, a volte lasciavamo qualche borsa da Luigino il macellaio, che era più un amico che un fornitore di fiducia, la carne fresca a casa nostra era merce un po’ rara; da lui sarebbe passato più tardi mio padre con il suo motorino, allo smontare del turno di lavoro.

Nonostante la sfacchinata sarei comunque rientrato nella mia via Sottoriva con una nuova macchinina e tanti ricordi di un’infanzia passata sempre al fianco dei miei genitori.

Continua con la quinta parte.

Ritorna alla terza parte.

Andrea.

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