Scattare ad ogni costo?

Martedì 4 ottobre 2016 | Andrea Sivilotti

Come esercizio per una costante autocritica di norma riguardo le foto scattate in passato, soprattutto quelle pubblicate sul web e capita spesso di chiedermi se sia stato veramente sostanziale fermare quel determinato istante.

Perché ho premuto il pulsante proprio in quel momento?

Perché non ho aspettato?

O semplicemente perché non ho rinunciato a scattare?

Spesso si è ossessionati dal timore di non premere il tasto dello scatto nel momento cruciale, secondo i canoni imposti dai grandi fotografi, che ci hanno sovente ricordato l’importanza di guardare il mondo attorno a noi attraverso il mirino della macchina fotografica, così da essere sempre pronti a congelare l’istante magico, o quanto meno ad essere preparati.

Dicevano: “quando camminando per strada, guardi in una determinata direzione e individui una scena potenzialmente interessante e meritevole di essere congelata in uno scatto, significa che quella fotografia è già persa, proprio a causa del lasso di tempo che hai lasciato trascorrere dal momento che l’hai individuata al momento in cui l’hai fermata sulla pellicola.”
È un concetto profondo, che istiga il fotografo alla pre-visualizzazione, ovvero ad anticipare attraverso l’osservazione e prevedere l’istante sostanziale da immortalare.

Bisogna aggiungere però che è un concetto che nasceva ed era riferito ad una certa fotografia professionale, una fotografia che doveva documentare l’irripetibilità del momento.

Come ogni concetto poi è stato estrapolato dal contesto, e riversato sulle masse di fotografi professionisti e non che negli anni sono spuntati come funghi.

La tecnologia digitale ha infine completato l’opera, praticamente annullando il costo dello scatto vero e proprio, e garantendo all’esecutore la possibilità di evitare ogni tipo di sforzo, fisico o psicologico che sia.

Ogni fotografo si sente così autorizzato a scattare a raffica, sia metaforicamente producendo centinaia e centinaia di file in poche ore, sia effettivamente realizzando decine di scatti in sequenza ravvicinata di pochi secondi, così da poter avere una maggior certezza di aver immortalato qualche cosa di buono.

Perché quindi perdere del tempo a ragionare, ad osservare, a documentarsi prima di imbattersi nella situazione da fotografare, ad aspettare il momento clou, a previsualizzarlo?
Tanto su un migliaio di scatti verrà pur fuori qualche cosa di buono.

Come grande osservatore di immagini e frequentatore di siti, blog, gruppi sulla fotografia, frequentatore di mostre ed esposizioni, appassionato di libri fotografici, noto sempre di più quanto la fotografia di massa stia sguazzando in una pozza di acqua stagnante.

Lo studio delle grandi opere del passato (sempre che di vero studio si stia parlando) da parte dei fotografi di massa e dei fotoamatori, invece di scatenare una ricerca interiore per uno stile proprio, non per forza di cose rivoluzionario magari classico, ha prodotto una valanga interminabile di cloni.

Ci sono quelli che spudoratamente ricercano la vera e propria emulazione del fotografo a cui si ispirano, cercando di riprodurre le stesse immagini; ci sono quelli che pensano che sia sufficiente inserire un filtro bianconero per rendere una foto interessante; ci sono quelli che ad ogni costo devono produrre immagini “strane”: storte, sfocate, mosse, sbiadite, scure, con soggetti tagliati, inquadrature improbabili, soggetti fotografati banali, perché se non sono “strane” non risultano “cult”.

La cosa che poi mi lascia più sconcertato è che molte critici della fotografia, o comunque esperti del settore, ritengono che solo gli appartenenti a l’ultima categoria citata siano realmente “avanti”, per usare una loro tipica espressione.

Quest’aspetto mi ricorda tanto un bel film di Alberto Sordi: “Vacanze Intelligenti”.

Queste persone però non si rendono conto che di Lucio Fontana con le sue “tele tagliate”, o di Piero Manzoni con le sue scatolette di “merda dell’artista”, ne nascono pochi in un secolo e le loro produzioni artistiche erano il risultato di un profondo processo di evoluzione interna culturale e psicologica, raffrontata alla società del momento in cui vivevano, forti di uno spessore ideale che li contraddistingueva, di sicuro non s’inventano a tavolino scopiazzando un po’ qua ed un po’ là dai loro colleghi.
L’appiattimento oggi è globale.

Osservo le immagini sul web, seleziono una disciplina: ritratto ad esempio.

Comincio a vedere fiumi e fiumi di immagini una uguale all’altra.
Foto ben fatte, correttamente esposte, dai colori perfetti e al limite del reale (stranamente le modelle ultimamente han tutte gli occhi chiari, dev’essere anche questo l’effetto del buco nell’ozono), modelle bellissime, bianconeri con l’intera gamma dei grigi che Ansel Adams otteneva solo con un lunghissimo e delicato processo, insomma immagini a dir poco strabilianti sul piano tecnico, ma sul piano emotivo?

Mi colpisce la bellezza della modella, mi colpiscono i suoi occhi, i colori impressionanti, il bianconero così amato, ma le foto sono… sono noiose, tutte uguali, stesse pose, stesse inquadrature, stesse espressioni, sono senza spessore.

Lo stesso esperimento possiamo farlo con i paesaggi, dai colori irreali o dai bianconeri carichi, oppure con la street-photography che colpisce più per i suoi effetti grafici o di colore che per i contenuti e il rigore della composizione presa al volo, al contrario di quello che dovrebbe essere.

Allora continuo a chiedermi: ma perché si scattano certe fotografie?

Forse è arrivata l’ora di lanciare una nuova moda, riproporre un nuovo vecchio adagio: Rifletti a lungo e poi decidi se sia il caso di “non” scattare quella fotografia.

Buona notte.
Andrea.

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