Clandestini
Domenica 26 febbraio 2017 | Andrea Sivilotti
Camminava lungo la strada tirandosi dietro il carrellino, al quale fino a pochi giorni prima era legata la sacca per la spesa.
Per questa giornata invece l’aveva sostituita con un carico di scatole di cartone, impilate una sull’altra con in cima a coprire una coperta; il tutto legato con due cavi elastici colorati, gli stessi che un tempo usava per fermare i sacchetti del pane sui grandi cesti della bicicletta. Italo aveva lavorato metà della sua vita in una panetteria, era stato il suo primo impiego regolare.
Aveva cominciato non più giovanissimo come garzone addetto allo scarico dei sacchi di farina, sacchi che di fatto pesavano ben più delle sue quattro ossa messe in croce e tenute assieme da una pelle apparentemente bruciata ed invecchiata dal sole.
Prima di quell’impiego solo lavoretti saltuari, pagati poco o quasi niente, tanto che a trent’anni da poco compiuti, prese la sofferta decisione di abbandonare assieme alla moglie e il figlioletto i luoghi dov’era cresciuto, per tentare la fortuna alla ricerca di qualche cosa di meglio.
Italo e la moglie in quell’occasione, pareva avessero scavato e trovato dentro alle proprie anime un’energia pressoché sconosciuta, un’energia così grande da farli legare i quattro stracci che possedevano con degli spaghi di canapa, e farli mettere in cammino senza un soldo in tasca e senza una meta precisa. Era ciò che sentivano di dover fare, soprattutto per l’avvenire del figlio che tanto avevano desiderato e tardivo era arrivato, fragile e triste come le loro vite.
Avevano sentito dire che di là dai nuovi confini c’erano delle speranze, i racconti in paese parlavano di lavoro regolare per tutti, della possibilità di vivere in case arredate con dei veri mobili, con stanze divise per la notte e il giorno, con armadi dove mettere i vestiti.
Italo era cresciuto in una famiglia numerosa, di vestiti ne aveva avuto sempre e solo uno, quello che indossava, e gli sembrava persino strano pensare che se ne potesse avere un secondo o addirittura diversi.
La moglie invece si arrangiava a cucire, e riusciva quindi a smontare dei vestiti vecchi che di tanto in tanto le venivano donati, e a ricomporli in dignitose vesti da usare per la casa e per quelle poche volte che riusciva ad andare al mercato.
Entrambe non erano credenti e quindi per loro non v’erano festività consacrate, e di conseguenza non c’era l’obbligo di recarsi al confronto domenicale nella piccola chiesa del paese.
Certo che quando nacque Mattia, il loro figlioletto, le cose si complicarono. Non potevano escluderlo dalla vita sociale, come avevano fatto loro, un bambino doveva poter giocare con gli altri bimbi e fare tutte le cose che gli altri facevano, compreso andare a scuola e quindi a catechismo.
Italo camminava e ripensando a quei duri momenti riusciva ugualmente a sorridere, un sorriso ispirato dalla tenerezza delle immagini che gli si componevano avanti agli occhi.
Camminava e ricordava il lungo cammino tra le valli che portavano al confine, i sentieri irti in mezzo al bosco, i compagni di viaggio tutti incolonnati come una di quelle tante spedizioni esplorative che andavano di moda tra i benestanti di quel tempo.
Nella sua semplicità non riusciva a capire come alla gente rimanesse del tempo libero, da potersi concedere per un viaggio lungo e pericoloso, in mezzo all’ignoto, con il solo scopo di scoprire luoghi, persone e animali mai visti prima.
A lui bastavano i poco frequenti viaggi che faceva dalla sua sperduta borgata sino alla grande città, spesso costretto dalla burocrazia che s’inventava ogni volta una nuova domanda a cui dover rispondere, una carta o un modulo nuovo da firmare. E ad ogni suo viaggio anche Italo faceva delle scoperte, scopriva che la città era cambiata, che qualche cosa non era più la stessa di prima, quindi anche lui si riteneva un esploratore eppure dei suoi viaggi nessuno ne aveva mai parlato.
Camminando ricordò anche Dario un omone buono, in quel viaggio clandestino li aiutò portandosi sulle spalle Mattia, che stanco non riusciva a mantenere il passo della colonna.
Né Italo né Noemi sarebbero mai riusciti a portare per lunghe tratte il figlioletto, nonostante il suo corpicino fosse così esile per i suoi sette anni, anche loro erano troppo deboli e la strada era troppo impegnativa.
Attraversarono il confine su una sella innevata e fredda, un posto dimenticato da Dio e dalla guardia di frontiera, un corridoio dove la direzione veniva indicata dal gelido soffio del vento, che spazzando la neve e alzandola in turbini fastidiosissimi, la spingeva verso una gola rocciosa, da dove sembrava scomparisse quasi risucchiata.
Di quel viaggio Italo portava ancora le conseguenze, la mancanza di scarpe e indumenti adeguati gli aveva procurato un congelamento cronico dei piedi, con uno strascico di effetti collaterali.
Ma di quei mali non si lamentò mai, il vero immenso ed inguaribile dolore non era certo quello che gli colpì i piedi, bensì il cuore.
Durante l’attraversata la moglie ed il figlio si ammalarono di polmonite, e se di fatto con l’aiuto di Dario e altre persone riuscirono a raggiungere la valle dal lato francese, Noemi e Mattia morirono pochi giorni a seguire, in un fatiscente senatorio di un piccolo paesino di montagna, dove un tempo qualche signorotto delle città amava recarsi per respirare la fresca aria estiva.
Italo in mezzo a quella sella seppellì la donna della sua vita e il frutto del loro amore e metaforicamente il proprio cuore, il cuore che li aveva tanto amati.
Camminava e il sorriso di pochi passi or sono era svanito, il suo volto era divenuto inespressivo, semplicemente perché non c’era al mondo un’espressione da poter riprendere per esprimere e riassumere il dolore di una vita intera.
Ma fin dalle settimane successive alla perdita della famiglia non perse mai l’energia per andare avanti, lottare, lavorare e soprattutto e nonostante tutto, vivere.
Almeno sino ad oggi.
Camminava con un passo spedito per la sua età, pareva proprio avesse un compito importante da portare a termine.
Era sceso alla stazione dei treni ed aveva chiesto indicazioni sul luogo preciso dov’era avvenuta la tragedia, oramai in paese la gente si era già disabituata a vedere il pellegrinaggio di giornalisti, curiosi e turisti delle disgrazie.
Si fa’ presto a dimenticare.
Passato il momento di euforica solidarietà con i superstiti e per le vittime, dove tutti, attaccati ai giornali e alle tv seguono in unico immenso lutto di facciata gli eventi, si va via via sfumando alla ricerca di un nuovo evento mondano.
Già, perché nella società odierna le disgrazie sono un fatto di mondanità, da seguire finché fa audience, discuterne accalorandosi o soffrendo forzatamente al bar o sul posto di lavoro, poi si passa ad altro.
Italo era diretto nel luogo, dove erano state raccolte a decine le vittime innocenti di una delle tante sfortunate attraversate della salvezza, uomini, donne, bambini indiscriminatamente caduti in mare, vittime della disperazione e alla ricerca di una vita migliore, ma non per voluttà no, solo una vita che fosse degna di essere vissuta.
Italo camminava e pensando a quei migranti, pensava alle tante Noemi e ai tanti Mattia di quel barcone, ma anche ai tanti Italo rimasti in vita che a differenza sua, invece di essere accolti da quel paese straniero, consolati e aiutati a sopravvivere a quel dolore come capitò a lui, vengono maltrattati, odiati e rispediti un po’ alla volta nei paesi da dove sono fuggiti.
Camminava e non si capacitava di tutto quest’odio, della generale indifferenza.
Ora camminava lungo un molo, puntando verso la fine dello stesso e dove cominciava una riva spiaggiosa. Da lontano cominciò a notare qua e là dei mazzi di fiori rinsecchiti, appoggiati sui pochi scogli che emergevano dalla sabbia dai grani grossi. Notò anche dei rifiuti galleggiare in riva al mare spumoso e immaginò potessero essere pezzi di quei barconi che venivano un po’ per volta restituiti e risucchiati dalle correnti.
Ora il passo era divenuto pesante e il carrellino annaspava sprofondando con le ruote nella sabbia.
Si fermò. Si rizzò sulla schiena guardando frontalmente il mare lasciando che il vento gli portasse sul viso la frescura della mattina, si voltò individuando un luogo dove potersi sedere.
Sedutosi su uno scoglio particolarmente appiattito dall’erosione operata dall’andare e venire della marea, prese il carrellino tra le gambe e con pazienza slacciò i legacci che lo chiudevano ed iniziò ad estrarre una per volta, una serie di oggetti che ordinatamente andava via via allineando al suo lato.
Erano oggetti che venivano dal lontano passato, quando ancora i suoi cari gli vivevano accanto. Li aveva salvati e custoditi per tanti anni e ora voleva donarli a quelle creature ingoiate dalle onde.
Uno alla volta li gettò in mare osservando come la marea se li portasse via, e quando anche l’ultimo giocattolo di legno fu così lontano da perderlo di vista, aprì l’ultima scatola.
Ne estrasse un paio di pantaloni di velluto a coste, una camicia in flanella e una giacca di panno, indumenti scoloriti, vecchi e logori, li stese accanto a se, poi iniziò a spogliarsi.
Quando ebbe finito di indossare il suo vecchio completo, si rese conto che anche se per tanti anni era stato riposto in fondo a una scatola della sua soffitta, lui di fatto non l’aveva mai del tutto dimenticato, non aveva mai dimenticato le sue origini e forse quegli abiti non li aveva mai smessi.
Italo scese dallo scoglio, portò il carrellino con ciò che era rimasto e i documenti vicino ad una cabina balneare.
Estrasse da una tasca degli indumenti con cui era arrivato una lettera, la mise in bella vista sulle scatole e si avviò verso il mare.
Nelle poche righe della lettera di commiato v’era scritto:
“Ringrazio tutte le persone che mi hanno voluto bene, ma ora sono stanco e me ne voglio proprio andare.
Voglio raggiungere la mia Noemi e il mio Mattia che da tanto tempo mi aspettano.
Ho scelto questo luogo e non le Alpi, perché qui molte persone innocenti poche settimane fa hanno perso la loro vita in un viaggio della speranza, così come tanti anni fa la persero i miei cari.
Credetemi, le vittime della disperazione sono tutte uguali, non hanno età, sesso, cittadinanza, razza, posizione sociale o culto religioso, sono tutte semplici persone alla ricerca di una vita più umana.
Nel bene e nel male io sono stato comunque fortunato, non tutti lo sono, però tutti possono cercare di esserlo e adoperarsi perché anche gli altri lo siano.”
Nota dell’autore.
Perché anche noi siamo sempre stati un popolo di emigranti, legalmente e clandestinamente.
Per questa storia ho preso spunto da alcune esperienze di vita dei miei genitori, mio padre infatti da giovanotto, in un periodo di terribile miseria e disperazione, tentò clandestinamente di emigrare in Francia passando il confine su un passo di montagna a piedi. Come il protagonista del racconto si beccò un congelamento dei piedi e dovette ritornare in Italia. Pochi anni dopo però emigrò in Svizzera, dove lavorò per tanti anni, riuscendo così a mantenere la sua famiglia in Italia.
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